Le emozioni non sono chiuse nella testa

Come, a partire dalla nostra esperienza, diamo senso alle cose che ci accadono? Cosa sono le emozioni, che danno un significato alla nostra esperienza in ogni momento e come queste si generano e si organizzano al nostro incontro col mondo?

Nel 1884, a dieci anni dalle teorie evoluzionistiche di Darwin, William James, nel suo storico articolo “What is an emotion”, dichiarava che le emozioni non sono altro che l’esperienza di un insieme di cambiamenti corporei che avvengono in risposta ad uno stimolo ambientale.

James poneva l’esempio: mettiamo di essere davanti ad un orso. Ciò che comunemente si dice, è che davanti a una minaccia–ci spaventiamo–e fuggiamo. Secondo lo studioso questo non è corretto e non coglie veramente ciò che accade. Per James, infatti, alla vista dell’orso, non c’é alcuna valutazione sul fatto che abbiamo paura e che quindi dobbiamo scappare per non essere aggrediti. Quello che succede è che IMMEDIATAMENTE fuggiamo.
E mentre le nostre gambe si muovono, il cuore batte, gli occhi cercano una via di fuga, allora ci accorgiamo della paura che abbiamo e cominciamo a pensare in che situazione pericolosa ci siamo cacciati.

Insomma, vediamo l’orso–scappiamo–e abbiamo paura.

James quindi mette al centro del dibattito sull’emozione gli stessi stati corporei che si esprimono in risposta all’evento, affermando che “i cambiamenti corporei seguono immediatamente alla PERCEZIONE dell’evento e il nostro sentire quei cambiamenti in atto, È l’emozione”.

Lo studioso fa un altro esempio per farci capire come il corpo sia indispensabile nell’esperienza emotiva. Se siamo arrabbiati con qualcuno e gli stiamo gridando le nostre ragioni, proviamo per un attimo a immaginare di togliere da questa situazione il nostro tono alto di voce, le contrazioni muscolari del viso, il battito cardiaco accelerato, i gesti tesi delle nostre mani. Cosa rimarrebbe? Si potrebbe dire che siamo ancora arrabbiati?

Negli anni, la teoria di James, grazie ai contributi dei neo-jamesiani e le teorie sulla mente incarnata, è stata ampliata e ritrattata in molti suoi aspetti. Essa però sembra essere comunque influente, soprattutto per il fatto di aver proposto una prospettiva secondo la quale le emozioni sono sempre incarnate e per cui i cambiamenti corporei che si manifestano nelle emozioni possono alterare l’esperienza stessa di un dato evento.

Negli ultimi decenni, nel campo della neurobiologia si è evidenziato il ruolo della componente corporea nell’origine delle emozioni, della coscienza, dell’empatia (Craig, 2009), indagando gli aspetti della corporeità che influiscono sul correlato cerebrale di tali processi. In questo modo si assiste ad un superamento delle classiche dicotomie cognizione/emozione, mente/corpo, proponendo uno studio della mente incarnata (embodied mind) e non ridotta al cervello.

La mente è qui intesa come un agente cognitivo situato, ossia inserito in un contesto non solo fisico ambientale ma anche di relazioni sociali con altri agenti cognitivi. Per la teoria dell’enactivismo di Varela e Maturana, l’individuo, nel suo far esperienza del mondo e nella sua costruzione di senso, é in un costante dialogo tra l’esperienza che emerge dall’avere un corpo e il fatto di essere incarnato in un contesto biologico, psicologico e culturale.
Per Varela la cognizione stessa è da intendersi come un’azione incarnata che deriva sempre il suo significato dall’essere situata in un corpo che fa esperienza di sé, in un contesto specifico che é il mondo in cui é immersa.

Si può quindi affermare che l’esperienza emotiva, è frutto di una coscienza incarnata, che si fonda sulla percezione degli stati fisiologici in corso e attribuisce significato all’esperienza proprio a partire da questi (Craig 2009, Damasio 1999, Critcley 2004).
Cosa può insegnarci questa prospettiva?
Forse proprio il fatto di non dimenticarci mai di avere un corpo e che il nostro sentimento di esso è fondamentale per comprendere e gestire meglio le nostre emozioni e le cose che ci accadono.